In me alberga il cuore ferito di un cucciolo abbandonato, indifeso, geloso e feroce.
Quella ferocia è rivolta, per prima, contro di me. Mi lacero cercando di negare i miei desideri, temendoli. Invece di lasciarmi andare gioiosamente alle sensazioni che mi scorrono dentro, freno e gratto e mi sbuccio per non prendere velocità, terrorizzata che qualcuno possa dispiacersi che sia felice.
Ma chi?
Cos’è, ancora mia madre che mi guarda dai recessi del mio inconscio con disapprovazione e mi sputa addosso il suo considerarmi incapace, inadeguata, insufficiente?
Forse sì.
Che palle, però; è gran ora che me la lasci alle spalle e avanzi verso la luce del mio piacere.
Ferisco anche le persone intorno a me; non lo faccio apposta. Peggio: spesso non me ne accorgo finché non è accaduto. Scoprirlo poi ferisce anche me, mi sento orribile (che ferire gli altri sia un trucco per, in fin dei conti, ferire me stessa? ingegnoso).
Anche qui: che palle.
Ma è che a volte sono stanca: la consapevolezza di sé è così faticosa; qualche volta vorrei solo tirare i remi in barca e lasciarmi beccheggiare alla deriva – anche se lo so che poi non sono felice.
La felicità è faticosa. E io sono così pigra.