Una settimana infernale, di corsa, sempre al telefono, a inseguire la burocrazia, le scartoffie, l’incompetenza altrui, gli uffici, le promesse non mantenute, le richieste dell’ultimo secondo, la pressione per la scadenza ormai prossima. Tensione alle stelle, il cervello una pentola a pressione riempita troppo che fischia, fischia e sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro.
In tutto questo, quando Lei mi dice che potremmo anche non vederci, visto che sono così sommersa di cose da fare, mi viene da piangere.
Il cuore mi si lacera in due. Da una parte so che più tempo mi servirebbe; dall’altra significa rinunciare ad essere presente, ed anche, egoisticamente, ad un momento per me. Ho un nodo in gola e cerco disperatamente una soluzione, un sì e non un no; un compromesso. Lo trovo.
Il treno che mi porta è un interregionale vecchio, scassato, pieno di gente e di valigie strapiene in mezzo al corridoio. Il vagone sferraglia e strepita, il viaggio lo passo al telefono, chiamando, lavorando, apro il computer portatile e compilo altri moduli, l’uomo accanto mi chiede in prestito una penna. Il sole batte attraverso i finestrini, le porte si aprono e si richiudono con un gran baccano, sobbalzo per gli urti.
Il treno che mi porta di ritorno è un frecciabianca quasi vuoto; i sedili sono puliti, tutto è nuovo, c’è persino il tavolino. Il vagone è silenzioso e scivola nella notte sui binari come un sospiro, quasi non si sente; il dondolio del trasporto è lieve e mi culla. L’ambiente profuma di pulito, il controllore è cortese e sorride, c’è una presa elettrica a disposizione per ricaricare il cellulare o il computer.
Allo stesso modo sono partita: la testa in confusione, il caos del lavoro, mille e mille pensieri accavallati in mente. Allo stesso modo sono tornata: rasserenata, rilassata, svuotata e ripulita. Ricaricata.
Colma di una nuova, quieta potenza da riversare nuovamente nel mondo attraverso me stessa.