Se c’è una parola che detesto, è “trasgressione”.
Questa parola che viene detta con intenzione, con lo sguardo torbido, con desiderio morboso, ha invece l’effetto di spegnermi qualsiasi voglia. Mi viene da ridere a vedere il tono con cui viene detta questa parola, ad intendere chissà quali cose turpi e vietate dalla morale comune… una parola per rappresentare la propria diversità, la propria unicità rispetto al popolino triste e meschino che si limita ad un rapporto alla missionaria di 2.5 minuti. E che invece per me precipita chi la sbandiera in un’altra mediocrità, quella del sentirsi e mostrarsi, appunto, “trasgressivi”.
Non c’è niente che azzeri l’essere trasgressivi come il dichiararsi tali.
Non appena vi avvicinate e mi dite “ho voglia di trasgressione”, con lo sguardo che vuole essere intenso, e la voce magari bassa come a comunicare un messaggio privato ed esclusivo, non adatto alle orecchie di tutti… ecco, quello è il momento in cui mi si sollevano le sopracciglia e vi metto mentalmente una croce sopra.
Non so perché sono così insofferente a questa parola. Forse perché ciò che vivo non è una fuga dalla quotidianità, ma fa parte integrante del mio essere. O forse perché non faccio certe cose per il puro gusto di mettere una tacca sul fucile, una bandierina sulla mappa, o per vantarmi al bar; ma per vivere con intensità un’esperienza che arricchisca me e le persone che la vivono con me; per crescere, per imparare, per sentire oltre la normale soglia della percezione, per acquisire sempre più consapevolezza di me.
E’ vita, nella sua profonda complessità. Non svilitela chiamandola “trasgressione”.