Ancora una volta, cado.
Dopo l’intensità così a lungo desiderata, dopo i colpi, la voglia, i brividi, lo stare a terra, dopo tutto quello che mi hai fatto sentire, il mondo quotidiano è così grigio e spoglio. Peggio: è vuoto. Non c’è più un significato semplice e diretto a riempirlo, com’è invece il sentire della sessione.
Beccheggio e faccio cose, mi muovo anche bene in questo mondo banale, ma mi porto dietro un senso di tristezza, di nostalgia, che ancora non so come gestire.
Mangio cioccolata e bevo vino, ma sono solo palliativi che non riempiono questo senso di vuoto. Anzi: sono disfunzionali e fanno peggio.
Ho letto su FetLife una riflessione molto interessante sul fatto che l’aftercare sia da considerarsi un tempo di transizione: non una pratica o un insieme di gesti, ma un periodo di tempo strutturato utile a spostarsi da uno stato mentale in ruolo ad uno diverso, utile a vivere la realtà per com’è in quel momento, senza restare incollati alle sensazioni precedenti. Da schiava senza dignità a lavoratrice responsabile. Per funzionare meglio.
Mi serve questo tipo di riflessione, questo tipo di realizzazione: riuscire a creare una transizione funzionale per godermi il meglio di ogni momento, nel momento presente.