Cavi

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In ufficio, mi chiamano. Una stampante non funziona più. Vado.
Il cavo è sfilacciato, corroso, vecchio, coperto di polvere di eoni. La collega spinge lo spinotto nella presa e la stampante ronza, parte, poi si ferma, e via così a singhiozzo.
"Vedi – mi dice – fino adesso bastava premere un po’ e andava… Adesso non vuol più saperne".
E ci credo, penso, un cavo così è una sfida a ogni procedura di sicurezza, e anche una attentato alla propria vita. "Vado a prendere un cavo nuovo", dico alla collega, guardandola di sotto in su.
"Sarà meglio", sbuffa lei.
Non oso risponderle. Mentre sgattaiolo verso lo sgabuzzino per il cavo, la osservo di sfuggita, di nascosto.
Così alta, i tacchi altissimi, la stretta gonna a tubo che le inguaina i fianchi e le cosce, che si apre in uno spacco vertiginoso, le calze velatissime; quelle mani lunghe, affusolate, curatissime, che maneggiano sempre la sua penna dorata come fosse il bocchino di una sigaretta, appoggiandola alle labbra rosso carminio; i capelli stretti in un’acconciatura immobile, da cui non sfugge un capello, e gli occhiali dalla montatura spessa, nera e lucida, che incorniciano occhi verdi da gatta, ciglia lunghissime e sguardo sprezzante.
Non posso non guardarla. E’ più che bella, è imponente. Mi sovrasta con la stessa autorità immota di una montagna, impossibile metterla in discussione.
Torno col mio cavo. "Scusi", balbetto, e mi infilo sotto la scrivania, per cercare l’altro capo del cavo danneggiato, attaccato al muro, per togliere la spina.
Mentre la sto togliendo, d’improvviso mi ritrovo nella penombra più fitta. La collega, seduta sulla sua poltrona lussuosa, ha nuovamente infilato le gambe sotto la scrivania. Non vedo quasi più niente, mi ha incastrata lì sotto.
Sto per borbottare qualcosa, per chiedere umilmente se può lasciarmi luce per farmi lavorare, quando lei di colpo alza una gamba, e mi infila il tacco esattamente nella spalla.
"Ah!", strillo. Lei mi preme lo stiletto nella carne, allargando le gambe.
Il mio sguardo risale veoce lungo la linea sinuosa della sua coscia, fino al suo sesso. Non indossa biancheria, e le calze sono autoreggenti. Mi gira la testa.
"Avanti", ordina la sua voce, dall’alto, da oltre il ripiano di rovere.
A quattro zampe, mi infilo sotto di lei, tra le sue gambe. Sporge il bacino verso di me. L’effluvio del cuoio della poltrona si mischia a quello del suo sesso umido. Il suo tacco continua a infierire, ma non voglio più che smetta.
Chiudo gli occhi, apro la bocca. Mi immergo. Lecco spasmodicamente, voracemente, mentre lei si contorce, mi afferra i capelli con una mano e me li tira, mi tira la testa ancora più contro di sè, senza nemmeno permettermi di respirare. Ansimo, inalo scampoli d’aria, il suo odore mi inebria, mi bagno follemente. Il dolore del tacco piantato nella carne si confonde nella marea di sensazioni che mi sommerge.
Viene, e rilascia un fiotto caldo, acido, che mi bagna completamente il volto, che bevo per non soffocare, che mi gocciola lungo il collo e sul seno.
Infine, mi lascia andare.
Barcollo, a stento mi rialzo in piedi. "Il cavo è a posto", mormoro, stordita, bagnata fradicia, la bocca appiccicosa dei suoi umori.
Lei non mi risponde, non mi guarda neanche. Mi fa a malapena un cenno.
Mi allontano verso il bagno per rassettarmi, insicura sulle gambe, lo stomaco sciolto, lacrime di gioia che mi rigano il volto.

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