Fantasia prima dell’evento

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Da ore ormai non capisco più niente. Ma saranno ore? O giorni? Non lo so più, ho perso anche la cognizione del tempo.

Sono bendata ormai da tempo immemorabile, mi sembra di avere dimenticato la luce del sole. Arranco a quattro zampe sotto lo stimolo del frustino o dei piedi dei miei Padroni, che mi urtano con mala grazia per farmi avanzare. Non ho una strada da seguire, non uno scopo, ma arranco ugualmente, per il loro piacere, per deliziarli e divertirli.

La Padrona è essa stessa una schiava, e anche io ho contribuito a farle male, ho aiutato il Padrone a farla soffrire, ma mai ho raggiunto il rango di Padrona io stessa. Sono sempre stata solo uno strumento. Lei invece è fiera e altera, quando domina brilla di luce propria, la volontà di dominio è forte e splende in lei come un piccolo sole abbagliante. Io non possiedo un sole, ma solo una piccola luna, un docile pianetino che obbedisce alla gravità dei pianeti più grandi, dei soli splendenti di cui solo riflette la luce.

Questo pianeta oggi è stato conquistato e spogliato di ogni proprietà, ridotto a crateri fumanti ed eletto a suolo da calpestare.

Oggi? O non è stato ieri? Quanto tempo è passato?

Gattonando arrivo su un tappeto. I Padroni dicono “ora dormiamo”, mi schiacciano a terra coi piedi, intimando “a cuccia”, poi non avverto più la loro presenza accanto a me. Sento il fruscio delle lenzuola, i loro sospiri soddisfatti e appagati mentre si appisolano, lo schiocco di alcuni baci, poi più nulla. Solo respiri regolari. Mi accuccio meglio che posso sul tappeto ruvido, ogni centimetro della mia pelle è martoriato e urla. Mi accoccolo in posizione fetale e cerco di riposare anch’io. Mi chiedo se sia giorno o notte, ci sarà buio fuori? Ci sarà ancora un fuori? O non sto piuttosto vivendo in un luogo sospeso, separato, creato dalla volontà e dal capriccio dei miei Padroni, come in quel vecchio episodio di Ai confini della realtà?

Penso al mio nome, e mi sembra irreale.

Non riesco ad addormentarmi. Mille pensieri sconnessi turbinano nella mia mente, e le innumerevoli ferite sulla mia pelle bruciano dolorosamente, impedendomi di trovare pace. Come un’oscena tortura autoimposta, ripercorro tutto quello che è accaduto in questo tempo, da quando è arrivata a trovarci la Padrona.

I ricordi all’inizio sono lucidi. La banchina del treno, i saluti, baci e abbracci. Promesse sussurrate di successive pratiche. L’arrivo a casa, il contrasto tra il sole fuori e la penombra dentro; gli scuri chiusi per non far trapelare nulla.

Ci spogliamo, io e lei. Nude siamo più belle che vestite, sfoggiamo con orgoglio biancheria sexy. Lui ci fa piegare a novanta sul divano, una accanto all’altra, ci abbassa gli slip e comincia a toccarci. A insultarci. Ci penetra dolorosamente con le dita, senza riguardo. Lei geme più di me, è più stretta. Ci sculaccia violentemente, a braccio pieno, senza preavviso, cinque colpi a testa. A questo punto, riuscivo ancora a contarli. A questo punto, inspiro a fondo, e mi entrano in circolo le endorfine, mentre il mio culo sfoga caldo.

Prima scopiamo lei. Sesso puro. Ci lecchiamo tra noi, lecchiamo lui, lui lecca noi. Capezzoli vengono strizzati e unghie affondate nella carne, ma sopratutto scopiamo.

Prima io. Indosso lo strap-on, quello doppio. Una parte penetra me, affondo l’altra dentro di lei, nella sua figa vogliosa e stretta. Lui le tiene il cazzo in bocca, e si fa leccare le palle mentre si masturba. Allunga le mani a palparci le tette. La scopo forte, mi piace. Mi piace sentirla gemere con la bocca piena, mi piace il contraccolpo che ricevo dentro.

Poi lui si stende. Tolgo il cazzo finto e mi siedo sul suo. Gli cavalco il cazzo mentre lei gli cavalca la faccia. E’ grosso e mi fa godere, lo prendo tutto volentieri. Lei geme, godendo della lingua di lui. Io e lei ci baciamo a lungo, con la lingua, toccandoci i seni, mentre godiamo sopra di lui.

Lui se la gode, ma non gode. Sappiamo tutti e tre cosa vuole. Infine ci giriamo per dargli la soddisfazione che desidera. Lei si stende a pancia in giù, io la tengo. La tengo saldamente. Lui si lubrifica abbondantemente e glielo spinge nel culo. Lei urla, strilla e strepita, si agita violentemente sotto di me, ma la tengo ferma quanto posso. Sbava e urla insulti al suo indirizzo. Lui sorride, quel sorriso ampio e sadico che sa fare, le afferra le chiappe e le affonda di più nel culo. La chiama troia. La chiama patetica troia. Lei impazzisce, lo chiama bastardo, lurido bastardo, aguzzino, assassino. Lui ride forte e le scopa il culo.

Lo spinge ritmicamente dentro e fuori, a fondo, lei urla, io vedo un rivolo di sangue e mi sento mancare. Lui mi fulmina con un’occhiata, mi ordina di tenerla ferma, ed eseguo. Lei comincia a insultare anche me. Stronza, vigliacca, mi chiama. Vorrei aiutarla, salvarla, ma non oso ribellarmi a lui, che ride di lei e continua a umiliarla.

Infine sborra, le viene nel culo grugnendo di piacere, fiero e soddisfatto. Le scivola fuori portando con sè un rivolo di sangue pastoso che le disegna un arabesco su una chiappa. Lei geme e mugola di dolore. Ad un cenno, la lascio andare. Lui la prende e l’abbraccia, la coccola, la consola. Lei lo bacia, gli dice che l’ama. Lui dice “anch’io” e le asciuga le lacrime con le labbra, baciandola teneramente.

Resto in disparte. Senza rendermi conto mi metto una mano tra le gambe, sono fradicia. Li guardo con occhi acquosi e torbidi come il mio cuore e i desideri che lo agitano.

Lei alza lo sguardo dall’abbraccio di lui e i suoi occhi scuri mi fulminano. Trasalgo.

Si libera dall’abbraccio e mi si rivolge contro: “Tu piccola troia stronza, tu l’hai aiutato a torturarmi, avresti potuto aiutarmi ma non l’hai fatto, vigliacca puttana! Ma ora te la farò pagare!” Io tremo, lui sorride e la sostiene.

Mi legano le mani e le caviglie tra loro, incrociate, dietro la schiena. Resto in ginocchio, le cosce aperte. Lei mi si avvicina con un sorriso immenso, leccandosi le labbra, gli occhi lucenti. Si vede che ha voglia di divertirsi, che sa che può farmi tutto, qualsiasi cosa. Mi accarezza piano con le sue dita gelide, le unghie lunghissime e curate, il suo tocco lieve mi passa sul viso, sul collo, sui seni, sulla pancia, dappertutto. Vibro.

Il mio respiro è breve e veloce e si spezza quando di colpo mi afferra un capezzolo e lo torce. Un singulto mi occlude la gola. Comincia una danza sulla mia pelle. Accarezza lieve e poi graffia. Mi stritola i capezzoli, li tira, li morde, sembra voglia strapparmeli. Mi lascia solchi lunghi e rossi su tutto il corpo. Io mi agito, cerco di rannicchiarmi su me stessa per sfuggire al dolore, che tuttavia agogno. Mi piace da impazzire. Lui però si mette alle mie spalle, mi afferra per i capelli e mi fa inarcare, offrendomi in sacrificio a lei.

Lei gode di questo. Guarda lui negli occhi e posso solo immaginare che lui risponda al suo sguardo infuocato con uno altrettando bollente. Lei mi accarezza il viso e mi affonda le unghie nelle guance, fino a infilarmi le dita in bocca. Le succhio devotamente.

Mi mette una mano in mezzo alle gambe e mi deride: sono bagnata, bagnatissima, lo so e mi vergogno. Mi masturba e mi insulta, umiliandomi e facendomi vergognare di più. Il piacere che provo è uno strumento che usa per farmi male.

Mi pizzica la clitoride, le labbra, gioca col mio piercing. Fa un cenno a lui, che si sposta da dietro di me lasciandomi la chioma. Lei mi spinge brutalmente all’indietro, mi fa cadere stesa sul letto, in una posizione orribilmente scomoda dato che sono legata. Lui subito ne approfitta e mi si mette a cavalcioni della faccia, le sue palle calde mi scivolano sul viso. Le lecco. Sento le sue mani sulle ginocchia, premono e mi allargano completamente le cosce. Avverto un refolo d’aria fresca sul sesso fradicio, e questo mi ritorna una consapevolezza totale di come sono nuda ed esposta.

Non vedo nulla, solo le palle e il culo di lui. Non so cosa vogliono farmi. Bisbigliano tra loro ma non capisco, li sento armeggiare.

La prima molletta fa male, ma non troppo. Mentre lui mi tiene, lei mi appende addosso quante più mollette può, sulle grandi labbra, sulle piccole, sul clitoride. Strillo e gemo quando ne attacca una lì, il dolore è lancinante. Ma non posso muovermi, gemo e basta.

Il suono delicato delle code di cuoio mi raggiunge insieme al dolore. Mi frusta l’interno delle cosce col gatto a nove code. Quello piccolo, probabilmente. Colpisce prima piano, poi più forte e più forte. Lui mi tiene le cosce larghe, mi impedisce di sottrarmi. Le mollette si scuotono ad ogni mio sobbalzo, ad ogni colpo, rinnovando il loro dolore.

Lei smette per togliermi le mollette. Il male che fa è molto peggio di quando le ha messe, le toglie senza grazia alcuna, senza riguardo. Poi riprende subito la frusta e ricomincia a frustarmi più forte di prima, colpendomi anche sulla figa. Mi fa terribilmente male, comincio a  supplicare, a dire basta. Lui mi infila il cazzo in bocca e spinge, ammutolendomi.

Dopo qualche altro colpo smette. Mi fanno alzare e mi slegano, mi massaggio i muscoli indolenziti, mi accarezzo la carne dolorante. Li guardo e capisco che non è abbastanza, che hanno appena cominciato.

Mentre lei soppesa con gusto diversi strumenti – la snake, il gatto grosso, la frusta da barrell – lui mi porta al muro e mi ci appoggia. Mi lega insieme le polsiere e mi mette il morso. Mi accarezza la testa, accosta le labbra al mio viso e mi sussurra: “Ora stai qui ferma”. Annuisco, assaporando il sentore del suo respiro, il calore della sua pelle che odora di sesso.

Si allontana nuovamente da me, lo sento scambiare effusioni con lei, ridacchiano. Il suono dei tacchi di lei che si avvicinano non promette nulla di buono, incede verso di me con alterigia.

Il primo schiocco della snake mi taglia in due la schiena.

Mentre mi colpisce sulla schiena e sul culo, mentre io mi abbarbico al muro freddo per il dolore, mentre lui la accarezza e la incoraggia, mi insulta. Mi chiama troia, puttana, sgualdrina. Mi accusa di godere dello stesso cazzo che a lei provoca tanto dolore, e non è forse questa una prova che non sono che una lurida puttana sfondata? Mi chiama cosa, mi chiama buco. Mi chiama cagna.

Mi frusta ferocemente la schiena e il culo, facendo delle pause per non farmi abituare al dolore, cambiando strumento. Annichilisce la mia anima coprendomi di insulti, di offese, di minacce.

Mi mette le briglie e mi porta a spasso per la casa, frustandomi, facendomi strisciare. Mi fa leccare i suoi stivali lucidi. Obbedisco a tutto, mi umilio e mi sottometto a lei, alla sua aura, alla sua frusta.

Tempo dopo (ma quanto tempo? due ore? due giorni?) sto strisciando verso il letto, verso la mia cuccia, coperta di solchi, di segni, sanguinante, mentre ampi lividi cominciano ad affiorarmi sulla pelle, dimentica di me stessa, dello scorrere del tempo. Le ferite inferte nella mia carne bruciano, quelle inferte nella mia anima continuano a scavare senza fine, facendomi biascicare frasi sconnesse, facendomi scorrere lacrime sulle guance come mi scorre fluido tra le gambe.

I miei ricordi si sono fatti confusi.

Ricordo che a un certo punto ero legata, immobilizzata, costretta a guardare loro che scopavano, che godevano davanti a me, senza che a me fosse concesso nulla, nemmeno di masturbarmi.

Ricordo che nessuno mi ha fatta godere. Ricordo di essere stata penetrata violentemente con oggetti di gomma, di essere stata masturbata rudemente, ma non con lo scopo di farmi raggiungere il piacere. Ciò che cola dalle mie gambe non è sperma, è solo il mio miele, abbondante, a dimostrazione della mia voglia insoddisfatta, del mio essere una troia masochista. Il solo piacere che ho potuto avere l’ho dovuto subire, distillandolo dal dolore.

Sono esausta. La mia cuccia è dolorosa, il tappeto punge. A poco a poco, mi sto addormentando per sfinitezza.

Poi, una mano calda scende dal letto, mi accarezza il capo. La voce del Padrone mi dice: “Brava. Brava”. Il cuore mi si riempie di infinita gioia. Si alza anche la voce della Padrona: “Brava. Hai resistito tanto. Sono orgogliosa di te”. Il cuore ora mi pare mi scoppi nel petto per la felicità. Mi gonfio di gioia, d’orgoglio, mi sembra di volare. Caldissime, dolcissime lacrime mi scorrono dagli occhi.

“Vi amo”, mugolo. “Vi amo”.

Mi rannicchio a terra sospirando, il cuore liberato da un peso di millenni, colma d’infinito amore, sussurro “grazie” come una litania e mi addormento, pacificata.

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