Mi abbatto sulla mia vita come un fiume in piena sugli argini. Schiumo, ribollo, viva, costretta in limiti che mi sono auto-imposta. Il cielo è plumbeo, le acque torbide, la violenza del fiume minaccia e si ingrossa.
Devo restare acqua cheta, ma mi rodo l’anima.
Sui ponti vedo gli sguardi preoccupati di chi mi abita intorno.
Se tracimo, travolgo. Se travolgo, annego.
Devo tracimare, devo. Sento la furia piena delle acque che mi sconquassano, mi getto contro i muraglioni, cieca, feroce, non voglio abbattere ma devo, devo, mi premo dentro per salire, scavalcare, terrorrizzata dalla distruzione che porterò, tutto trascinerò con me, tutto nel gorgo profondo.
Non si possono che innalzare mura più alte per contenere le acque, non è così? Rinunciare al fiume come risorsa, smettere di percorrere le vie fluviali, chiudere, costringere, innalzare, incanalare. E più chiudo più mi innalzo, più le acque costrette risalgono le pietre, a cercare aria, a cercare sfogo, a cercare spazio.
Il sollievo del fiume è il canale.
Forte, profondo, gli argini di cemento fatti per resistere, per permettere il deflusso: apre la sua diga e si inchina per far passare il fiume, che lo urta, lo maltratta e lo inonda; con violenza tracima nel canale, ma non ne turba la placida solidità; il canale è capace, è capiente, sa dove andare. Accompagna il fiume perché non soffra, perché non distrugga. Lo porta dove sa che deve andare: a se stesso, oltre il confine della città.
Il canale trattiene l’irruenza del fiume con ferma decisione, con autorevolezza lo guida, con affetto ne accoglie le acque; lo filtra perché si sfoghi, lo ascolta perché possa mugghiare, lo lascia sfogare perchè possa, finalmente, scorrere.
Scorro.
Devo restare acqua cheta, ma mi rodo l’anima.
Sui ponti vedo gli sguardi preoccupati di chi mi abita intorno.
Se tracimo, travolgo. Se travolgo, annego.
Devo tracimare, devo. Sento la furia piena delle acque che mi sconquassano, mi getto contro i muraglioni, cieca, feroce, non voglio abbattere ma devo, devo, mi premo dentro per salire, scavalcare, terrorrizzata dalla distruzione che porterò, tutto trascinerò con me, tutto nel gorgo profondo.
Non si possono che innalzare mura più alte per contenere le acque, non è così? Rinunciare al fiume come risorsa, smettere di percorrere le vie fluviali, chiudere, costringere, innalzare, incanalare. E più chiudo più mi innalzo, più le acque costrette risalgono le pietre, a cercare aria, a cercare sfogo, a cercare spazio.
Il sollievo del fiume è il canale.
Forte, profondo, gli argini di cemento fatti per resistere, per permettere il deflusso: apre la sua diga e si inchina per far passare il fiume, che lo urta, lo maltratta e lo inonda; con violenza tracima nel canale, ma non ne turba la placida solidità; il canale è capace, è capiente, sa dove andare. Accompagna il fiume perché non soffra, perché non distrugga. Lo porta dove sa che deve andare: a se stesso, oltre il confine della città.
Il canale trattiene l’irruenza del fiume con ferma decisione, con autorevolezza lo guida, con affetto ne accoglie le acque; lo filtra perché si sfoghi, lo ascolta perché possa mugghiare, lo lascia sfogare perchè possa, finalmente, scorrere.
Scorro.
Defluita la furia, infine placata tornerò placida a bagnare gli argini amati, accolta nell’abbraccio del mio letto naturale, il luogo cui appartengo.