Datemi mille anni da vivere come servo di scena, piuttosto che come primadonna.
La primadonna vive nell’affanno di una perenne insoddisfazione, all’inseguimento di una parte più importante, più ampia, di più battute, del proscenio. Mai contenta, mai appagata, sempre a scalciare, in lotta con le altre per rubare il palcoscenico, per prendere la luce e mettersi in mostra.
Il servo di scena lavora nell’ombra, in secondo piano, magari non ha nemmeno battute da dire; sposta gli oggetti, lavora sul palco e dietro le quinte, organizza, manovra, fatica. Non per sé, ma per lo spettacolo. Lavora perché tutto sia in armonia e la rappresentazione sia un trionfo per tutti. Umile, silenzioso, libero.
Libero di muoversi dove e come è meglio che vada; libero come un servo. Non deve mantenere la postura, non ha un contegno da esibire, un ruolo da ostentare; non ha un costume che lo impaccia né una parrucca che lo intriga. Non deve restare seduto impettito su uno sgabellino a fare il conte o la marchesa mentre magari un velario cade o si rompe un mobile sul palco; può correre avanti, chino, fare e brigare, recuperare gli oggetti caduti, aggiustare, sistemare e liberare la scena. Essendo sé stesso, mostrandosi qual è: servo di scena.
Un ruolo basso? Sì, come sono basse le fondamenta di un edificio.
Senza una primadonna si lavora ugualmente; ce ne son altre subito pronte a prendersene le battute.
Senza servi di scena uno spettacolo non si regge in piedi.
Datemi da essere serva di scena, da lavorare libera, con l’orgoglio di sapere che ciò che faccio è prezioso, senza necessità di ostentare ma con la consapevolezza di sapere esattamente come funziona il delicato e preciso meccanismo del teatro, con la pacata imperturbabilità di sapermi indispensabile anche se la primadonna non lo sa.
L’umiltà ha una grandezza che l’orgoglio non conosce.
Interessante.