Ho sollevato la mia marea nella ricerca di una spiaggia su cui gettarmi a riposare.
Ho lasciato che il mio cuore si gonfiasse e coprisse gli scogli delle coste che mi venivano incontro, che mi si offrivano fingendosi accoglienti. Le mie stesse emozioni in piena mascheravano le asperità e mi illudevano.
E quando andavo a frangere i miei flutti, mi schiantavo sulle rocce aguzze, tagliandomi; ferita risaccavo e allora mi apparivano tetri gli scogli, che mi accusavano di non essere stata abbastanza in piena da superarli, da smussarli.
Era colpa mia la presenza dei rift, delle barriere frangiflutti di cemento; questo mi veniva detto. Anche se quando arrivavo le trovavo già lì, anche se mi gettavo con tutta me stessa in piena per scagliarmici oltre, sempre mi respingevano accusatorie.
Finché non ho seguito umiliata la mia risacca. Sono tornata indietro in me stessa, respinta. Ho lasciato le coste, credendo di non esserne degna. Mi sono gonfiata negli abissi al largo, ritirandomi.
Sciabordando ho lambito altre coste, timorosa. Stavolta no, non mi ci sarei slanciata, no, sarei rimasta bassa marea, trattenuta e rancorosa.
Ho trovato sabbia bianca e corallo. Barriere leggere che si lasciavano accarezzare dalle mie onde; possenti, immense, ma profonde e placide, non innalzate sopra il livello del mare a ergersi contro.
Un poco alla volta ho lasciato che la mia marea crescesse e tornasse a fidarsi e, infine, a frangersi in piena su quella spiaggia; e la spiaggia ha accolto i miei flutti feroci e salati, mi si è distesa davanti e mi ha lasciata stendermi, aprirmi, a perdita d’occhio; mi ha permesso di rilasciare la potenza del mio cuore in piena senza ostacolarmi.
Ora pacifica mi ritiro indugiando, lasciando conchiglie come doni preziosi; mi rilasso nel ritmo naturale della mia marea, senza più sentirmi in colpa di essere oceano.