Solo un paio di giorni fa tramavo tra me e me: adesso lo lascio. Me ne vado. Così impara.
Non era chiaro nemmeno a me cosa dovesse imparare da una cosa simile, veramente. Però stavo male, lo dico a mia (parziale) discolpa. Abbattuta dallo stress, dall’influenza, dall’antibiotico, dal vedermi gonfia e ingrassata… poker.
Ma anche lui ha i suoi problemi e lo sai. Mi dicevo. Sì però faccio i capricci, uffa uffa. Avere una parte di sé che batte i piedi e fa il broncio è una scocciatura. Sono mesi che vorrei, che voglio, e lui non può! La lamentela continua penetra nelle mie povere difese indebolite. Guardo questa bambina-slave viziata che salta qua e là, minaccia di trattenere il fiato fino a scoppiare, e vuole andarsene per risentimento, per egoismo ferito e frustrato. Non riesco a reagire.
Un mattino finalmente lo sento, dopo giorni di letto, parenti, riso bianco, mele cotte, telefonate di lavoro e quant’altro. (Veramente il riso bianco e le mele cotte non erano male).
Lo sento e la bambina che stringe i pugni svanisce nel nulla.
“Mi manchi”, gli dico. E tutte le recriminazioni, le richieste, i vattelapesca? Vattelapesca, appunto. Cedo, lascio andare, apro il cuore e i sentimenti veri scorrono, riscaldandomi. E’ vero, non sto al meglio, ma va così. Quello che è importante, che riconosco finalmente senza opporvi resistenza, è che non è vero che me ne voglio andare.
Poi, arrivano le notizie di merda. Quelle davvero di merda, che tocca usare le parolacce, quelle della vita quotidiana. E il mio desiderio di restare si fa persino più forte.
Padrone, è un periodo di merda, ma sono qui.
Sono la tua slave e qui voglio restare.
Quello che sento nel cuore è che non contano l’apparenza, l’apparato, la quantità. Io so di appartenerti, ancora. Questa appartenenza non è giunta a termine, non importa quanto sia un periodo di merda. Ti posso sostenere, ti posso aspettare. Resterò accucciata sul tappeto e ti guarderò senza chiederti nulla, come fanno i cani, con occhi che abbracciano e nessuna pretesa.
Ti voglio bene Padrone.