Trasse dai suoi armadi quasi tutti i suoi vestiti “da festa”, sparpagliandoli per la stanza, sul letto, sulla sedia, sulla scrivania e per terra, per scegliere la mise migliore. Escluse harness e corsetti: non avendo nessuno per aiutarla a stringerglieli addosso, non avrebbe potuto indossarli. Considerò a lungo su quale colore orientarsi, se sul rosso o sul nero, o magari sul bianco (clinical?). Ricontrollò il volantino della serata per essere certa del dress code, che però era piuttosto libero, purché fosse sadomaso o fetish. Scelse quindi un completo di lingerie rossa con bordi di volant e laccetti e fiocchi neri, che le stava deliziosamente.
Si pavoneggiò davanti allo specchio per un po’, poi indossò sopra un abitino nero piuttosto anonimo e caldo, utile a coprirla nel tragitto fino alla festa. Infilò gli anfibi e mise in un sacchetto gli stivaletti rossi coi lacci neri e i tacchi a spillo, che si abbinavano alla perfezione alla mise. Si arrotolò la sciarpa attorno al collo e tornò a guardarsi allo specchio.
Così bardata, sembrava ancora più bassa di quanto non fosse; teneva i piedi girati in dentro e si tormentava il bordo dell’abito con la mano libera. I capelli fulvi e crespi le si arruffavano intorno al capo.
Si fissò negli occhi. Il cuore le batteva all’impazzata, lo stomaco stretto in una morsa. Esitò.
Girò il viso e vide nel monitor del computer la locandina della festa. Inspirò a fondo, di colpo, riempiendosi i polmoni e, senza più riguardare nello specchio, strinse il pugno intorno alle maniglie del sacchetto e scavalcò la finestra prima di ripensarci.
Atterrò nell’aiuola delle petunie un metro più sotto. Socchiuse la finestra e corse via, oltre il vialetto, dietro le siepi, al riparo (pensava) dagli sguardi dei Padroni. Dalla finestra del piano superiore, in realtà, il suo Padrone osservava la scena; quando la vide sparire nel buio della notte richiuse le tende ed andò all’armadio; ne trasse il nerbo di bue e si sedette in poltrona, tremebondo, rigirandoselo tra le mani, scaldandolo, manipolandolo, finché da duro che era divenne morbido e flessibile. Sua moglie, vedendolo così, non gli chiese nulla; lo lasciò al suo cupo stato d’animo ed andò a letto a leggere, sebbene fosse in pensiero per lui.
Piccola, ignara di tutto questo, corse a perdifiato fino al cancello, lungo la strada esterna e si fermò solo all’incrocio, col cuore in gola e i polmoni che scoppiavano. Solo allora si accorse del freddo, della nebbia che era quasi una pioggia sospesa, della paura che aveva.
Ormai era tardi per ripensarci, o così credeva; desiderava ardentemente essere certa della sua scelta. Così, cercando di convincersi di essere molto sicura di sé, non si voltò indietro. Prese fiato e riprese il cammino verso la festa, che distava solo un paio di chilometri: di buon passo, non ci mise molto.
Arrivò che ancora non c’era quasi nessuno; ebbe tutto il tempo di pagare l’ingresso con la paghetta che teneva da parte, cambiarsi e prendere il biglietto del guardaroba. Si ritrovò a vagare per la sala ancora deserta del dungeon senza sapere che fare. Non c’era nessuno da seguire, nessuno da servire, nessuno al cui fianco sentirsi sicura. Approfittò così subito della sua consumazione gratuita, sia per darsi un tono maneggiando il bicchiere che per rilassarsi.
Bevuto il liquore, iniziò a sentirsi più calda, più confidente. Accarezzò le attrezzature, saggiò le fruste a disposizione, annusò le code di cuoio dei flogger, inebriandosene.
A poco a poco il locale si riempì e la musica si alzò. Sulle pareti iniziarono a venire proiettati video sadomaso che attiravano la sua attenzione. La gente si salutò calorosamente, chiacchierò e finalmente iniziò a giocare. Piccola trotterellava qua e là, sperando di incontrare qualcuno di conosciuto da salutare, guardando con invidia le ragazze e i ragazzi torturati dai loro padroni, osservando con cupidigia ed ammirazione le performance di piercing e bondage. La musica, piena di bassi e ritmata, le martellava nelle viscere amplificando il suo stato d’animo inquieto. Cercava di evitare gli sguardi rapaci dei master singoli presenti, mentre una parte di lei li desiderava. I suoi occhi saettavano d’attorno, per guardare o per scansare.
Ad un certo punto capitò. Uno di quelli, un uomo alto, sulla cinquantina, stempiato, vestito con un elegante completo nero ed una cravatta viola, le si piantò davanti e le disse: “Buonasera. Tutta sola?”.
Il suo tono sicuro, forte, fece breccia nelle labili difese di Piccola, che balbettò qualcosa di incomprensibile in risposta. Si guardò intorno sperando di venire salvata da qualcuno, da qualcosa; ma non c’era nessuno con lei.
Lui riprese: “Lascia che ti offra da bere. Cosa ti piace fare? Vieni qui”.
L’ultima frase non lasciò scampo a Piccola. Si sentì irretita, irrequieta, piena di voglie e di paure che non riusciva a gestire da sola. Non poteva chiedere il permesso di giocare con quell’uomo, perché il Padrone non c’era, e mandargli un messaggio avrebbe significato farsi scoprire. Comprese a quel punto di essere sola, e libera. Libera di una libertà che la terrorizzava, che non voleva. Desiderò poter essere di nuovo guidata, controllata, protetta; ma, spaventata all’idea di cosa il Padrone avrebbe potuto pensare di lei a saperla fuggita, accettò di farsi schiava del primo che passava. Qualsiasi cosa le sembrava meglio che essere libera.
Seguì quell’uomo ad una delle strutture, una di quelle più discoste dal centro della festa. Si lasciò legare di buon grado, dimentica di tutte le regole di sicurezza, di protezione. Voleva essere l’anima della festa e si lasciò portare al patibolo. Quell’uomo dopotutto appariva autorevole, autoritario, forte e competente.
Ma dal primo colpo che le arrivò addosso Piccola capì che, appunto, appariva e null’altro.
La colpì sui reni e nell’incavo delle ginocchia, e a nulla valsero le sue proteste. La colpì a caso senza badare al suo benessere. La schiaffeggiò in viso, cosa che lei odiava e che la fece piangere. Quando le lacrime le solcarono il viso qualcosa in lui scattò, le si avvicinò troppo, si aprì i pantaloni e la penetrò nonostante le sue urla di diniego: era legata e bloccata e non poteva sottrarsi.
Chi le risparmiò il peggio fu, per fortuna, il Dungeon Monitor. Egli passò di lì e la sentì strillare tutte le safeword che conosceva, dal banale “rosso” all’ovvio “safeword” a qualsiasi altra cosa che le passasse per la mente, comprese suppliche reali. Intervenne di gomito sullo zigomo di quell’uomo che non accennava a sospendere la sua attività e lo scollò da lei, sollevandolo poi di peso per cacciarlo dal locale.
Quando tornò da lei, Piccola stava ancora piangendo, le mutandine coi laccetti strappate, i lividi che iniziavano a farsi bluastri.
“Non c’è nessuno con te? – le chiese – Non hai un Padrone?”. Lei sentì il suo cuore lacerarsi e non riuscì a dire nulla. Lui la sciolse e la accompagnò in bagno a rassettarsi; le fece preparare un the caldo al bar e cercò di consolarla prima di tornare al suo dovere.
Piccola, devastata, infine ringraziò e guadagnò il guardaroba per andarsene; non erano ancora nemmeno le due del mattino e già se ne andava da quella che doveva, voleva che fosse una festa meravigliosa, la festa più perfetta cui sarebbe mai andata. E che invece, mentre tutti gli altri si divertivano, la risputava sul marciapiede come una gomma masticata, violata nel più profondo del suo animo oltre che nel corpo.
Ciò che la distruggeva era la consapevolezza di essersela cercata. Aveva disobbedito gravemente.
Fuori, per strada, il fiato che le si condensava in piccole nuvole bianche, pensò di andarsene lontano, fuggire del tutto e non tornare mai più. La prospettiva di dover guardare di nuovo in viso il suo Padrone, che aveva tradito in modo tanto meschino, la annichiliva.
Ciononostante, non aveva altri posti dove tornare, e desiderava poter tornare. Pregò in cuor suo di poter essere riammessa alla presenza del Padrone, e prese a trascinarsi verso casa.
[Segue]