Finalmente prendo il coraggio di fare un lungo discorso. Colgo l’occasione che siamo soli per un po’, ad esempio in auto andando da un posto ad un altro, abbastanza distante.
Non è facile per me fare un discorso; ho sempre il terrore di esprimermi nel modo sbagliato, o di dire le cose male, e che tu ti indisponga, o che t’incazzi proprio. Dio se odio poi dover affrontare un litigio, non ne sono capace; finisco per dire solo “sì” e “va bene” anche se non è vero, purché finisca, e poi non faccio che rimestarmi in testa risposte sagaci o taglienti che non avrò mai il coraggio di dire.
Mi preparo il discorso per giorni finché non mi sento abbastanza serena da riuscire a dire le cose senza astio, senza acredine, nel modo più tranquillo possibile; perché dopotutto so bene che l’acrimonia o il rancore non portano molto lontano: meglio ragionare serenamente, insieme.
Facciamo il discorso e tutto va nel migliore dei modi. Dico quello che penso, quello che sento. Riesco a spiegarmi e anche tu mi spieghi il tuo punto di vista, i tuoi sentimenti; ti comprendo meglio e, spero, tu comprendi meglio me. Ti espongo le mie difficoltà sull’argomento, il modo in cui cerco di affrontarle, ti chiedo il tuo parere, come affronti tu le cose, ti ascolto.
Infine abbiamo detto più o meno tutto quanto c’è da dire finora a riguardo; non che il discorso sia concluso, ma per il momento abbiamo fatto il punto, abbiamo nuovi spunti di riflessione (io almeno), sappiamo quali carte sono in tavola eccetera. Restiamo un po’ in silenzio, nessun problema.
E poi. Mi dimentico sempre di quanto sei bravo in questo. Quando siamo ormai arrivati, aggiungi una frase. Come una firma, un piccolo aforisma, un fiocco a suggellare il discorso. Un commento perfetto, che coglie una sfumatura di me che non avevo visto, e lo so, lo so che lo dici con le migliori intenzioni, e perché mi vuoi bene, e hai ragione, cazzo se hai sempre ragione. Comunque. Queste tue parole si infilano agevolmente nelle maglie dell’armatura che indosso sempre, che ora ho allentato nel parlare, nell’aprirmi con te. Questa tua freccia mi si conficca nel costato, tra i visceri, dove mi fa più male; in un istante, sono sull’orlo delle lacrime. Ma siamo arrivati, l’auto è parcheggiata, dobbiamo magari incontrare qualcuno; e così devo stringere forte il tappo di quello che sento e fare la faccia bella, o almeno la faccia normale. Rinserro l’armatura e un nuovo fiotto di pensieri mi affonda il cervello in elucubrazioni che dovrò riordinare prima di poter fare di nuovo un discorso con te.
Per un attimo, un solo attimo, brevissimo ma assoluto, questo dolore intercostale mi convince che avevo ragione: sono sbagliata. Ti ho deluso. Ancora.
“Certo che sarà difficile che trovi qualcuno che ti voglia bene se non pensi che cose brutte di te stessa.”
Due ore dopo.
Incredibilmente, ne riparliamo a brevissimo giro di tempo.
E’ come curvare in snowboard, forse: se sto a pensarci prendo paura della velocità, della pendenza, della caduta, e non giro più: mi pianto a bordo pista. Se vado, sentendo la tavola, fendo la neve e giro.
Se elucubro, mi incastro nei miei loop mentali. Se ascolto ciò che sento e gli dò voce…
Decidi: giriamo la frase. Perché è la negatività che ferisce e la fa sembrare una sentenza. Invece: “Sii più positiva e consapevole delle tue qualità e sarà più facile trovare persone che ti vogliano bene”. Mi illumino.
Sempre, ti amo; per questo mi conosci così bene da riuscire a colpire con precisione millimetrica; e dove attivi un punto di pressione, anche se doloroso, guarisco (anche se magari mi ci vuole tempo).