Arrancò dolorante per i pochi chilometri che la separavano dalla magione, da una doccia bollente e dalla sua cuccia. Ad ogni passo la sua anima si scaldava al pensiero di casa, e subito dopo precipitava nel terrore di venire scacciata. Attraversò il parco, dischiuse la finestra e si arrampicò di nuovo nella sua stanza, al sicuro.
Quando accese la luce, trasalì: il suo Padrone era lì, seduto sul suo letto, in mano ancora il nerbo, lucido dalla lunga manipolazione. Piccola lo fissò tremante: lui non accennava a dire né fare niente. Stava solo lì, seduto, lo sguardo fisso a terra, le mani che scorrevano lungo quel pezzo di carne secca e arrotolata.
Piccola si gettò ai suoi piedi in lacrime, implorando perdono.
Lui si alzò senza dire una parola, la afferrò per i capelli e la sollevò da terra di peso. Lei gemette per il dolore, cercando di aggrapparsi alla sua mano. Lui non glie ne diede il tempo: la trascinò fuori dalla stanza, fino al piano interrato dove c’era il dungeon; il fuoco crepitava nel grande camino di pietra.
Lui la gettò con mala grazia a terra e le intimò: “Spogliati”. Lei obbedì tremando, terrorizzata: non aveva mai visto il suo Padrone così. Così arrabbiato, così deluso. Era furente e si vedeva, e Piccola sapeva di essere responsabile di questo. Prese a piangere sommessamente, ma non più per sé o per la propra paura, ma per lui: per il dolore che vedeva trasparire dai suoi occhi, e che sapeva di avergli inflitto lei. Credeva di essere stata furba, di avergliela fatta sotto il naso; ma non era così. Lui sapeva tutto, capiva tutto di lei.
Si tolse gli abiti e la mise da festa fino a restare nuda. Il Padrone raccolse vestito, lingerie, anfibi e stivaletti coi tacchi (ancora nel sacchetto) e gettò tutto nel camino. Piccola strillò: erano alcuni dei suoi vestiti preferiti. Lui la fulminò con lo sguardo e lei tacque, pur continuando a emettere un acuto guaito.
Lui tornò da lei; la afferrò per un braccio senza alcuna gentilezza e la spinse contro una poltrona, facendola piegare sullo schienale. Lei rimase esposta; prima di poter pensare a nulla, sentì lo schiocco. Dopo lo schiocco, venne il dolore: acuto, lancinante, affondato nella carne delle sue cosce. Urlò.
Il Padrone le inflisse cinque colpi di nerbo senza preliminari, senza affetto, senza nulla di tutto quello che c’era di solito. Cinque colpi secchi, crudeli, a piena forza del suo braccio. Cinque colpi che si impressero nella carne e nell’anima di Piccola. Cinque colpi, cinque urla che risuonarono nella magione svegliando la Signora, che tremò sotto le spesse coperte del suo letto.
Cinque colpi, una punizione.
Quando ebbe finito, il Padrone si allontanò di un passo, ansimando. Piccola piangeva, tremava e singhiozzava, mentre il sangue affiorava dai solchi lasciati dal nerbo. Piangeva un pianto profondo, liberatorio: la mano del Padrone aveva riallineato tutto, aveva ridato un senso alla sua esistenza. Venire punita era il segno più grande che lui ci teneva a lei; non l’aveva cacciata né ignorata. L’aveva accolta nuovamente sotto di sé, e lei glie ne era immensamente grata. Era grata di quel dolore, di quella ferocia, di quella sofferenza che finalmente aveva un senso, non era vuota e indifferente come quella provata alla festa.
Lui lasciò passare qualche minuto; poi, prese un telo e andò a coprirla, la fece alzare e la riportò di sopra. Nel bagno grande, la vasca era già piena di acqua calda. Il Padrone vi fece immergere Piccola, che gemette di dolore quando il calore raggiunse le sue ferite. Lui l’accarezzò sulla testa e la lavò con una spugna morbida, lavandole via il trucco, lo sporco, la tristezza ed il dolore che le attanagliava l’anima. L’asciugò e la rivestì con un pigiama leggero; la portò alla grande cuccia ai piedi del suo letto e lì la fece coricare.
A quel punto, Piccola non piangeva più: la terribile punizione le aveva donato la catarsi che agognava, l’aveva liberata dall’oppressione del senso di colpa, dal dolore della disobbedienza. Piccola strusciò il viso sulla mano del Padrone e si addormentò. Respirava ora in modo regolare, sebbene le sfuggissero dalle labbra piccoli singulti di dolore. Tuttavia, mentre dormiva aveva un’espressione serena.
Il Padrone, dal canto suo, si infilò con gratitudine sotto le coperte: finalmente poteva riposare. Si lasciò avvolgere dall’abbraccio di sua moglie e di Morfeo. L’indomani si sarebbe pensato ad un’ulteriore, necessaria punizione, più articolata; all’educazione che doveva seguirne, a fare tutto ciò di cui c’era bisogno; ma per il momento poteva rilassarsi: Piccola era tornata, non era andata perduta.
Di cinque colpi, due non smisero mai di adornare le cosce di Piccola: si assorbirono in due solchi scuri, divergenti, rimanendo per sempre impressi nella sua carne. Lei li osservava quasi tutte le sere; nei momenti di dubbio, di dolore, vi passava sopra una mano e, anche se non ne avvertiva la presenza, poiché non erano né scavati né in rilievo, sapendo che c’erano ne traeva forza e consolazione.
Apparteneva a Lui, e non l’avrebbe mai più dimenticato.
[Fine]
[Dedicato a Pietro, che mi ha insegnato a essere chi sono, e alla me stessa che sono]