Ci sono quelle ragazze che si tagliano. Prendono qualcosa di tagliente, affilato, appuntito e se lo passano addosso, magari in qualche posto nascosto dai vestiti, e osservano il sangue affiorare. Il dolore fisico placa per un attimo quello emotivo.
Il mio autolesionismo è il cibo.
Ingoio cereali, pane, cracker, biscotti, tuttoquellochetrovo. L’atto stesso di avere la bocca piena mette per un poco a tacere il senso di insoddisfazione, di disagio, di inadeguatezza.
Il problema è che non funziona più. Crea invece un circolo vizioso. Già mentre inghiotto il cibo sento una voce che mi insulta per come sono debole, grassa, incapace di autocontrollo; che mi dice che quello che sto facendo è stupido, inutile, controproducente. Il fastidio fisico dell’abbuffata mi fa sentire ancora più gonfia di quanto non sia. Alimento – letteralmente – il mio disagio, il mio sentirmi brutta.
Piango calde lacrime di delusione per non riuscire ad essere migliore; per aver gettato al vento una dieta rigorosa ed i risultati conseguiti.
Mi sento un mostro e vorrei andarmene lontano, dove credo tutti vorrebbero relegarmi affinché non offenda loro la vista.
In un posto segreto nel mio cuore so che non è così, che la gente non mi odia né mi odierà mai tanto quanto mi odio io; e so anche che non dovrei odiarmi tanto; che finché mi odierò così sarà difficile se non impossibile stare bene o dimagrire, perché userò sempre il cibo come punizione, sia che me ne riempia sia che me ne privi.
Arranco un passo alla volta e spero che la direzione sia giusta.