Leggo Arrivederci amore, ciao di Massimo Carlotto.
All’inizio del libro, il protagonista giovane, bello e criminale ha fatto un’arte di sedurre le quarantenni per approfittarsi del loro denaro, o meglio di quello del loro marito ignaro.
Mi rendo conto d’improvviso che parla delle “quarantenni” come di una specifica categoria di donne le cui peculiari caratteristiche non vengono esplicitate ma sono autoevidenti: già solo dire “quarantenni” le inquadra molto bene, le rende riconoscibili: annoiate, parcheggiate in un matrimonio di comodo, ma estremamente vogliose e desiderose di andare a letto con un ventenne aitante.
Leggo e realizzo: io sono una quarantenne.
Di colpo questa categoria di cui leggo mi appartiene: parlano di me. O meglio, non proprio di me: di una generalizzazione in cui rientro, a nessun altro titolo se non l’età.
Faccio parte davvero di questa categorizzazione? Non quella anagrafica cui per forza di cose appartengo, s’intende, ma quella implicita. Corrispondo a questo stereotipo?
(Spoiler: no)
E’ sempre curioso accorgersi di rientrare in una categoria stereotipata. Si pensa sempre che i modelli siano applicabili agli altri, una cosa in cui incasellare le altre persone, non se stessi: noi siamo sempre unici e distinguibili, ai nostri propri occhi, poiché conosciamo tutte le infinite sfaccettature che ci caratterizzano e che impediscono le generalizzazioni. Eppure, per gli altri non abbiamo la medesima empatia. Così, trovo divertente accorgermi di rientrare, ad occhi altrui, in un modello, solo sulla base dell’età, che si porta dietro altre caratteristiche. E’ sempre interessante riuscire a guardarsi da fuori.