E poi c’è un momento in cui scavalco.
Non credevo ci sarebbe stato, né che avrebbe potuto esserci.
Urlo e gemo, l’intensità del dolore a un livello tale che faccio fatica a sopportarlo. I capezzoli stritolati nella morsa delle mollette, tirati dai cordini, la cera che cola e il flogger che colpisce. Tutto insieme. Si aggiungono il vibratore grosso, e gli schiaffi sulle cosce, il mio punto più sensibile.
Ho un singulto e scavalco.
Sulla ripidissima china della soglia del mio dolore, mentre scivolo all’indietro lambita dalle fiamme, d’improvviso trovo un appiglio, o mi arriva una spinta, e vado oltre. Supero la cima della collina e volo giù per il dirupo, dall’altro lato; resto sospesa, come appesa a un paracadute.
La sensazione è simile all’essere appena uscita da un concerto dopo essere stata accanto alle casse. Ho come un fischio nelle orecchie, tutto è ovattato e il mio cervello fluttua nella bambagia.
Il dolore continua, ma mi pervade; non resta più sulla mia superficie. Dalla pelle affonda i suoi artigli nella carne, si espande come un liquido rovente e mi colma.
Sto strillando? Sto piangendo? Un gemito acuto mi sale dalla gola. I miei occhi sono aperti ma non so cosa vedono. I miei muscoli tremano, stravolti dalla tensione.
Da questa bolla sospesa, infine, esco esplodendo di nuovo in un grido di dolore. Stringo i denti e sto per dire la safeword, quando penso: ma mi piace. Già. Mi piace. Mi immergo ancora nella bolla: in apnea, sento talmente tanto che non penso più; tutto il mio essere è percorso da brividi, nel corpo e nell’anima.
Pietosamente, il Padrone cala intensità e mi scioglie, facendomi riposare. Ansimo e tremo, raccogliendo i pezzi del mio sé, facendoli di nuovo scivolare insieme, come da bambina giocavo col mercurio dei termometri che si rompevano.