Mattina presto; mentre vado verso l’ufficio, il cellulare aziendale suona.
Mi si rimescola la pancia: chi sarà? che succede? Frugo nel marsupio e recupero il telefono mentre guardo la strada; tiro un occhio allo schermo ed è un numero sconosciuto, non riesco a capire se sia un cellulare o un fisso.
Inghiotto a vuoto ed il tempo si dilata.
Mi si presentano alla mente una miriade di possibilità. E’ un qualche cliente che ha delle lamentele da fare; un fornitore che mi vuole chiedere qualche specifica che non conosco. Magari è uno dei capi che mi chiama da un numero privato e vuole lamentarsi che non sono ancora arrivata (anche se non sono in ritardo), o che non ho fatto qualcosa, o non l’ho fatta ancora o non come voleva lui.
Lo stomaco mi si stringe, deglutisco a vuoto.
Questa telefonata, cui non vorrei nemmeno rispondere, mi si presenta come una specie di nemesi, anzi, di summa di ogni nemesi. Nella prospettiva, nella mia sola immaginazione, è una chiamata che mi sbatterà in faccia i miei peggiori errori, errori così stupidi ed irrimediabili che ancora non so di averli fatti; mi obbligherà a subire una marea di merda, di umiliazione e di disperazione. Mi farà sentire uno schifo.
Scivolo col dito sul touchscreen.
“Pronto?”
“…Salve. Parla Gabetti?”
“…No”
“Oh scusi, ho sbagliato numero!” -clic-
Rimango per un attimo attonita. Poso il telefono sul sedile accanto, incredula.
E’ sempre così: ogni volta che mi faccio soverchiare dall’ansia preventiva lo faccio a vuoto. Spreco energie preziose per preoccuparmi di cose che non sono ancora successe, che facilmente non succederanno mai. Un mal di pancia inutile.
Sospiro e cerco di tornare coi piedi per terra, ad affrontare le difficoltà quando (e se) si presentano. Che poi, quando accade, me la cavo egregiamente. Quello che mi uccide sono le proiezioni che crea con incredibile realismo la mia stessa mente.
Quanto ti capisco.