Di rado ma mi dirado

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A volte l’emergenza quotidiana, la fatica, i pensieri, tutto si accumula come un gran mucchio di neve fuori dalla porta del rifugio. Si sente la tempesta che infuria e ci si rannicchia nel sacco a pelo rimandando di uscire; ma anche quando il vento non soffia più, vedere tutta quella neve da spalare sembra un compito così tanto superiore alle proprie forze da preferire di tornarsene nella propria cuccia, a nascondersi sotto le coperte.
Questo si traduce fuor di metafora nel rimandare di fare anche le cose che si amano, come leggere e scrivere, in favore di una perdita di tempo che spenga il cervello, come scorrere ad libitum la bacheca di facebook, fino alla lobotomia virtuale.
Sale allora un oscuro e sotterraneo senso di disprezzo di sé, la sensazione (veritiera) di stare perdendo tempo prezioso; l’appiccicoso viscidume della melassa della pigrizia impasta e impesta anche la voglia di fare quella fatica bella, che dà soddisfazione.
Cavarsene fuori è ritrovare sufficiente fiducia da dire a se stessi: sì, quello che faccio vale. Invece di fissare il foglio bianco cercando allo spasimo qualcosa di profondo, di vitale, di imprescindibie da scrivere, scrivere e basta. Lasciar scorrere il testo, sentire il fluire della grammatica, i tempi verbali che si accordano come pezzi di un puzzle fino a creare un disegno magnifico ed armonico. Il piacere delle parole, una lettera dopo l’altra. Per il puro piacere di sentirle, della musica della scrittura.
Tutto vale la pena di essere scritto, letto, vissuto; anche se non è di necessità sempre la chiave di volta di tutta una vita, come a volte mi figuro che debba essere per poter meritare di esistere.

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