Aggrappata alla cavallina, gli occhi semichiusi. Mi sembra perfino sbagliato tenerli aperti e guardare, spiare cosa fa, cosa potrebbe stare per farmi: come se barassi, rubassi un’informazione. Così li tengo chiusi e mi lascio andare alle sensazioni. Respiro a fondo.
Il dolore dei colpi mi culla, quasi.
Ad un certo punto, durante una pausa, mentre Lui cammina altrove (forse a cercare uno strumento? a pensare a cosa farmi? forse sta solo controllando il cellulare, o accendendosi una sigaretta. Ssst, non pensare, non guardare, respira, aspetta), ad un certo punto quasi mi addormento.
Non so come succede. Le endorfine si mescolano con la stanchezza del poco sonno accumulato, forse, o la sensazione di essere al mio posto, l’abbandono, la luce soffusa: non so, ma chiudo gli occhi e non penso più, e quasi mi addormento. Certo, poi il dolore improvviso mi risveglia di scatto, ed il trauma è quasi piacevole.
Le palpebre pesanti, un vago sorriso che mi aleggia sulle labbra. Le mani afferrano la cavallina, si stringono, si tendono, allungo le braccia o le chiudo vicino al corpo: movimenti senza controllo, dettati dagli stimoli dolorosi, guidati dai nervi come una marionetta dai fili.
Mi sento un pupazzo di carne, un Suo giocattolo che può usare per fare del male. Per godere dell’imporre il dolore.
Quello che fa a me potrebbe starlo facendo alla cavallina stessa, ma Gli serve che il pupazzo soffra e sanguini per potersi divertire davvero. Per questo Gli serve non un oggetto inanimato, ma uno vivo.
Io sono – e voglio essere – il Suo pupazzo di carne.