Mi dici: si chiama aftercare.
Rispondo: non l’ho mai fatto.
Farmi coccolare, abbracciare, mi mette a disagio. Quello che cerco è umiliazione, distacco. Come puoi farmi subire certe cose, pisciarmi e sputarmi, e poi stringermi tra le braccia?!
Qualcosa nella mia testa non torna. Non si possono fare entrambe le cose. …Si possono?
Il mio aftercare era venire stesa da qualche parte, con una coperta calda a coprirmi, e lasciata a tornare in me. Senza coccole, senza carezze; solo con la presenza del Padrone un po’ più in là. Oppure, preparare un caffè, e riordinare.
Mi andava bene: era un prolungamento della sessione.
Distacco, distanziamento, verticalità.
Il Padrone non si confonde con la schiava, non le sta vicino: c’è sempre quella dovuta distanza.
Quella distanza ha reso intensissime le pratiche che ho vissuto. Ma ha impedito altre cose. Contatto. Comunicazione. Empatia. Il limite imposto era il bello e anche il brutto. Ora lo vedo.
Deprivazione.
Depravazione.
Mentre una parte di me ha ancora nostalgia di quella distanza, di quell’intensità, un’altra parte mi mette una mano sulla testa e mi dice: non è necessario; riposa, ora. E mi abbandono in quell’abbraccio, ancora a fatica, ma con gratitudine.