Stavolta niente corde: apri invece la valigia e tiri fuori cose che non usiamo da un pezzo e io sono persino stupefatta, quasi non ci credo. Mi fai spogliare e mettere polsiere e cavigliere, e poi mi metti il collare da postura: alto, rigido, scomodo, mi obbliga a tenere la testa alta e mi cambia il respiro. Agganci le polsiere all’anello del collare e mi sospingi al muro.
I colpi iniziano carezzevoli, quasi delicati. Mi portano nel mio mondo, in quel luogo altro dove il dolore si trasforma in piacere, la costrizione in libertà. Mi colpisci via via più forte con diversi strumenti e ognuno mi trasporta, lo ascolto e ascolto il modo in cui fa cantare la mia carne.
Ed è la volta della Dragon.
Sei in stato di grazia e la fai arrivare esattamente nel modo preciso e crudele in cui è più efficace: di punta, quasi solo mi sfiora ed ogni leggerissimo tocco è un morso feroce e bruciante che mi fa urlare.
Ti sento dirmi “shhh” e mi sforzo di non urlare. Ma è un dolore così pungente, tagliente, che non riesco quasi a farmene trasportare. Lo sento, mi porta, la testa galleggia, desidero quel dolore: ma è troppo incalzante e invece di impattare mi punge, mi risveglia dal mio torpore invece di affondarmici.
Sbatto i pugni al muro e apro la bocca per dire “giallo”, per dire che ho bisogno che sia meno, che ci sia più tempo, anche se non mi voglio fermare; ma ho bisogno di poterci respirare dentro, che questi tagli siano meno feroci. Non arrivo a dire nulla, però: prima che lo faccia capisci e ti fermi; mi vieni a prendere per i capelli e mi porti a stendermi per continuare in un modo diverso.
Ti sono grata e torno a chiudere gli occhi per abbandonarmi al dolore.