Come un bambino che ha paura del buio e chiude gli occhi per non vedere il mostro che si nasconde e si svela tra le ombre, tengo le palpebre serrate. Sento con gli altri sensi, ascolto il tumulto del mio cuore e non voglio vedere niente; un’incomprensibile paura mi attanaglia. E con essa, fortissimo il desiderio di guardare.
Prendo coraggio e dischiudo gli occhi.
Sulla sua coscia vedo stagliarsi l’ombra del mio profilo, la bocca aperta, la lingua di fuori. Lo stomaco mi si contrae e rinserro le palpebre, solo per riaprirle ancora poco dopo, soverchiata dal desiderio di guardarlo.
Alzo timidamente lo sguardo e spero di non incontrare il suo.
Osservo briciole di realtà; rubo scampoli di visione. Gli occhi socchiusi, le pupille corrono a guardare vicino, vicino, lontano, vicino, sopra, vicino. Richiudo gli occhi e ascolto.
Mi sale dentro la marea e smetto di combatterla, di ricacciarla giù al grido di “è sbagliato”. Ormai quella voce non è più che un vecchio guardiano del faro, che sbraita contro gli scogli; ma il mare non lo ascolta più: mugghia il suo richiamo e si abbatte sulle scogliere, inondando la riva, sommergendo i dubbi, i forse, i sensi di colpa. Tutto rimane coperto da una schiuma bianca e dall’agitarsi convulso dei pesci.
Quando si placa la marea, rimango ansante e fradicia a contemplare la distesa infinita delle acque, le rocce lucide, spazzate dal vento. Allora sì, tengo gli occhi aperti e mi lascio riempire dal tramonto che filtra rosso tra le nubi.