“…ffnd…”, mugugno.
Li sento spostarsi verso di me all’unisono per un “EH?” che mi suona detto in un sorriso.
“…Affonda”, ripeto a voce più alta, scandendo.
“Cosa?”, chiede lei.
“Le unghie”, sorrido io.
Poi è come immergersi in una vasca di acqua bollente dopo una giornata terribile. Brucia ed è meraviglioso e liberatorio e azzera finalmente tutti quegli stupidi pensieri che mi ronzano in testa. Mi lascio sommergere dai graffi, unghie appuntite che affondano e mi rigano la pelle; i miei strilli si strozzano in singulti e mi appendo ai lacci, in punta di piedi, avanti e indietro per sfuggire e per sentire.
Non riesco a non dare loro del lei.
Non riesco a guardarli negli occhi, che tengo bassi quando non sono bendata.
Mi lascio andare alle sensazioni, serena; so di poter dire sì, no, più piano, più forte, e lo faccio. Mi permettono di scegliere gli strumenti e poi giocano, scambiandioli: il limite diventa solo un pretesto per la creatività.
Mi era mancato tutto questo: il dolore, la sorpresa, il flusso di sensazioni; il colpo improvviso che mi sospinge nel subspace, il colpo crudele che mi riporta giù. La carne che riceve, che si apre, che si bagna; il senso di abbandono, di arrendersi. Resto nuda in ogni senso possibile e mi sento al sicuro coi miei torturatori; al di là della benda che mi chiude gli occhi, sono due e sono uno: si muovono insieme, uniti sopra di me, complementari e armonici ed io gioisco della loro gioia, specchio di carne da martoriare.
Ad un certo punto penso di non farcela oltre, che non ci sia più margine per fare altro. Invece mi stendono e scopro di poter sentire ancora di più: la cera calda mi investe come un torrente in piena e mi trascina via con sé, sciogliendo anche la mia coscienza.
Rimane di me una polpetta di carne segnata e felice, scondinzolante di gratitudine.