La mia paura è sempre superficiale. Ovvero, si ferma all’aspetto esteriore delle cose.
Osservo la superficie ribollente della realtà e mormoro: è calda. La sfioro con le dita, la pelle si increspa nel suo vapore.
Mi prefiguro le ustioni, il dolore, la carne che si espone a brani, bruciata, viva, annerita, morta. Ci giro attorno, timorosa, sospettosa e desiderosa. Laggiù, oltre quel magma, dentro quella lava c’è la vita, quella vera: quella che ho sempre detto di voler assaporare.
Infine di slancio mi decido. Affondo le mani in quella pasta calda, la manipolo, la massaggio; mi lascio avvolgere dal suo calore, mi lascio avviluppare fino al gomito, fino alle spalle.
Scotta, brucia ma non uccide. Anzi: riscalda. Rincuora.
Mi tuffo a testa in giù, con coraggio – ed il coraggio non è essere senza paura, ma affrontarla e superarla – confidando che presto riemergerò dall’altro lato, capovolta, con un altro centro di gravità, scottata ma fiera.