Uno dei miei limiti è il giocare insieme ad altre sottomesse. Sono consapevole che, purtroppo, in una tale occasione mi partirebbe un incontrollabile embolo di competizione. Preferirei di gran lunga che non accadesse e ci sto lavorando, ma finché non è risolto è e resta un limite: perché rovinare il gioco a me, ai Padroni e pure ad una terza persona? Meglio evitare.
Per questo nei giorni scorsi mi ha colpita con grande stupore un pensiero vagante: e se fosse un lui?
Pensando di giocare con un altro sottomesso maschio non mi parte alcuna gelosia, né senso di competizione. Non so perché. Non ci avevo nemmeno mai pensato, ma nel momento stesso in cui quell’idea mi ha attraversato la mente ho iniziato a fantasticare (dannata immaginazione).
Attraverso la porta ed entro nel dungeon: il dubstep che fa da colonna sonora batte dalle casse, le luci sono soffuse, rosse, smorzate dal soffitto nero; i miei occhi ci mettono qualche attimo ad adattarsi, ma lo vedo subito. E’ in ginocchio al centro della stanza, ha addosso solo un paio di slip neri – esattamente come me. Tiene le mani dietro la schiena e la sua bocca si apre in un atto spontaneo di stupore quando mi vede, e lo stesso fa la mia. Mi blocco e ci osserviamo.
E’ moro, coi capelli corti, sbarbato e depilato; un corpo solido, né grasso né scolpito. E’ un bel ragazzo.
Lady Rheja, dietro di lui, sorride. Il Padrone mi passa dietro la schiena e va a sedersi sul trono: anche lui sorride, sornione. “Sorpresa”, dice, non so se a me o a lui – forse ad entrambi.
Il cuore mi batte nel petto, è strano che ci sia anche un altro sottomesso.
Ci portano alla struttura e ci mettono uno accanto all’altra. Lui è, naturalmente, più alto di me. Ci osserviamo di sguincio, non riusciamo a dirci nulla: siamo pur sempre in presenza dei Padroni e non ci è permesso chiacchierare, siamo in gioco.
Il Padrone lega me e Lady Rheja lui: ci legano alla stessa maniera, le corde che ci passano intorno al torace, i polsi uniti dietro la schiena e poi sollevati in alto, assicurati alla struttura: lo strappado ci forza a chinarci in avanti, esponendoci. Barcolliamo per gli strattoni alle corde, per la posizione, ed ogni volta che per caso ci tocchiamo o ci sfioriamo sobbalziamo, come avessimo fatto qualcosa di sconcio. Lo guardo e vedo che anche lui arrossisce come me. Sorrido, e lui mi sorride in risposta.
Uno schiaffone fortissimo mi cala improvviso sul culo e mi strappa un grido; grida anche lui, colpito all’unisono. Il Padrone e Lady Rheja ci passano davanti portandosi alla nostra vista. Ridacchiano: “Allora, avete già iniziato a fare comunella?”, dicono; “Fate poco i furbi, occhi bassi e non toccatevi; ora ci divertiamo”, e tornano alle nostre spalle. Io e lui tremoliamo e ci mordiamo le labbra; abbassiamo gli occhi a terra senza più osare guardarci.
Il gioco inizia sommesso per farsi via via più intenso; i Padroni ci girano attorno, ci colpiscono, ci toccano, ci strizzano, ci spingono una contro l’altro e ridono del nostro imbarazzo, dello sforzo spasmodico ed inane di non guardarci né toccarci, appesi come siamo e tempestati dai flogger, dalle mani, dai frustini, da strumenti che non capiamo cosa siano ma fanno male, male, e ci gettano le menti in un deliquio liquido e sbavante.
Infine i Padroni ci sciolgono e ci spostano, ci mettono in ginocchio sul tappeto con le mani dietro la schiena; ci abbassano gli slip e si prendono gioco della nostra rispettiva eccitazione. Non riesco ad impedirmi di girare gli occhi a guardarlo ed è lì, evidente, dritto, duro, lucido e umido. Alzo gli occhi e incrocio il suo sguardo che risale dal lungo filo traslucido che collega il mio sesso alle mutande.
“Cosa stai guardando, eh?”, esclama il Padrone.
“La stai guardando in mezzo alle gambe, vero?”, rincara Lady Rheja.
Sia io che lui saltiamo, colti in flagrante, e giriamo subito la testa dall’altra parte. I Padroni ridono. La vergogna mi fa avvampare, ma sono bloccata dove sono, in ginocchio in mezzo alla stanza, nuda, bagnata, la pelle che sfoga il calore dei colpi subiti. Ho il respiro pesante.
“Bè – dice Lady Rheja – sembra che tutti e due abbiano una voglia disperata di venire!”
“Dici? Non si capiva”, commenta con pesante sarcasmo il Padrone.
“Dai – intercede lei – sono stati bravi. Glie lo lasciamo fare?”
Mi tendo come una corda. Oso guardare di sottecchi in direzione del trono, dove sono seduti, lei sulle ginocchia di lui, nella speranza che sia vero, che lui acconsenta; di colpo divento pienamente consapevole di quanto il sesso mi bruci e scotti, di quanto sia gonfio di voglia. Oh, per favore, per favore, penso.
“Mmm – fa lui, lasciando che il silenzio addensi il nostro desiderio – in effetti sono stati bravini, hai ragione”.
La tensione si fa palpabile. Sento anche quella di lui, accanto a me; un altro fugace sguardo – è più forte di me – e lo vedo che salta e si contrae, già sull’orlo dell’orgasmo. Vederlo mi carica ulteriore voglia.
“Allora li lasciamo venire?”, chiede lei con intenzione. In quel momento lo vedo arrivare, e capisco che c’è sotto qualcosa, che lo hanno già concordato, che quello scambio di battute non è affatto spontaneo, ma costruito per farci salire un’aspettativa da distruggere con calcolato sadismo.
“Bè – chiosa il Padrone con un ghigno – ne lasciamo venire uno dei due“.
Ci cala addosso un macigno. Il mio sguardo e quello del ragazzo si calamitano l’uno all’altra e poi si inchiodano a terra. Gli sguardi dei Padroni sono taglienti come lame, riesco a percepire quasi fisicamente il piacere che stanno traendo dall’osservare la nostra lotta interiore, il desiderio che ci dilania, la tensione che ci rende naufraghi nella stessa barca.
I Padroni si alzano e vengono ad incombere sopra di noi.
“Come decidiamo?” chiede lei.
“Tiriamo a sorte – risponde lui – Lui è tuo, e lei è mia. Cosa scegli: testa o croce?”
“Testa!”
Sento il tintinnio della moneta che salta dalla mano del Padrone, ed un attimo dopo la vedo atterrare ai loro piedi, davanti a noi. Io ed il ragazzo tiriamo il collo per guardare.
“Cosa è uscito, kat?”, chiede il Padrone.
Apro la bocca per rispondere, ma la scopro impastata. Mugugno qualcosa, deglutisco e rispondo: “Testa”.
“Non ho sentito”, fa lui.
Inspiro, chiudo gli occhi, deglutisco ancora e dichiaro ad alta voce: “Testa, Padrone”.
Il cuore mi batte all’impazzata, non so se di rabbia, delusione, voglia, tristezza, invidia, umiliazione o cosa. Sento il ragazzo sorridere di gioia, impaziente di poter accedere a questo inaspettato privilegio. Maledetto, penso, ma non ce l’ho davvero con lui.
“Fico, ho vinto!”, esclama Lady Rheja battendo le mani.
“Brava – sorride il Padrone – allora decidi come fare”.
Lei ci guarda. “kat, stenditi”, ordina. Io eseguo, stendendomi a terra a pancia in su. Da questa posizione vedo Lady Rheja girare intorno al ragazzo, bendarlo e girarlo verso di me. “Ora masturbati – gli ordina – kat, guardalo”.
Apro la bocca come per protestare, ma la richiudo senza emettere un suono. Alzo gli occhi a guardarlo prendersi in mano il pene e toccarsi; è paonazzo di vergogna in volto, ma è duro e lo capisco: la voglia supera l’imbarazzo, e l’imbarazzo aumenta la voglia. Io stessa sento le guance rosse e calde, stringo le cosce senza accorgermene mentre lo osservo tremare e contrarsi.
Il Padrone spegne la musica da sessione e l’unico suono che riempie la stanza è lo sciaguattare umido e ritmico del ragazzo, che rallenta nell’udirsi così chiaramente nel silenzio, ma riprende con maggior foga sotto sollecitazione di Lady Rheja.
Lei lo ha rivolto proprio a mio favore, quindi lo vedo perfettamente bene, e sento il getto caldo sul seno e la pancia. Mi si contraggono i muscoli e quasi sento il mio sesso urlare per la voglia insoddisfatta e feroce che ha. Lui ansima. I Padroni applaudono.
Mi risveglio da questa fantasia con gli occhi sgranati, il respiro grosso, un mezzo sorriso che mi tira le labbra e un forte calore nel basso ventre. Mi rigiro la sensazione tra le labbra e penso che stasera chiederò un permesso per masturbarmi.
i sogni possono diventare realtà