Diamante nelle Sue mani

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Inspiro, espiro.
Ho lasciato andare il freno a mano. Ho deciso.
Quando arriva sono pronta, mi sento pronta. Tutti i sensi all’erta, rivolti verso di Lui.

Mi piega senza grazia sul piano della cucina.
Non ho più paura: non era paura di Lui, ma di volerlo; di ciò che desidero.

Mi fa spogliare nuda. Mi guarda. “Mi piaci”, dice. Senza volere sorrido, gli occhi bassi.
Il mio corpo è più saggio di me, conosce cose che io non capisco. Il mio corpo arriva prima alla consapevolezza di ciò che desidero, di ciò che mi fa stare bene, mentre il cervello è ancora fermo ad elucubrare, ragionare, ripensare.
Sorrido senza pensarci e quel sorriso indica che gli credo, finalmente.

Dopo, il mio cervello non riesce più a pensare a niente. Un paio di volte ci prova, a mettere il becco. Ma la carne lo travolge. Tutto diventa bianco, silenzioso, ricettivo. Quel chiacchiericcio infinito si ferma, finalmente; riesco solo a rispondere sì, Padrone.
Annaspo, piegata, la faccia affondata nel divano, la benda che mi chiude gli occhi, le gambe larghe e il culo che urla per la fame di colpi che ha. Sento la carne che brucia, che pulsa: ogni centimetro di me grida ancora! ancora!! Mi inarco, mi espongo; mi lascio andare. “Più forte, Padrone, per favore!”, esclamo, senza credere di averlo detto veramente.

La wand mi cade dalle mani, gli occhi bendati mi si girano all’indietro, mugugno qualche verso senza senso; sbavo. Si ferma, mi raccoglie e mi fa stendere sul divano. Riesco ad articolare qualche parola: no, non voglio fermarmi. Mi fa girare a pancia in su, mi mette meglio. Io rotolo, felice che si prenda cura di me. Mi sposta ancora, ancora un po’, la testa mi scende dal bordo mentre il corpo resta disteso. Non capisco, ma mi lascio fare, molle e abbandonata a Lui, ancora convinta che sia una pausa, che siano coccole. Sento un frusciare di vestiti e di colpo è sopra di me; entra e mi usa la bocca.
Ho un singulto: non me l’aspettavo, la testa vortica, il corpo freme. Dentro di me si spegne qualcos’altro, divento oggetto, buco. Annullata, sconvolta, felice.
Poi, ancora: mi gira e sono colpi, graffi, cera, morsi. Mi chiama in ogni modo; stronza, persino. Penso (un pensiero primitivo, lento, in fondo al cervello): me lo merito proprio.

Mi mette a terra, i piedi in faccia. Lo odoro e mi lascio inebriare. Mi nutro di Lui, la lingua di fuori: lecco.
Mi usa ancora e i visceri mi si stringono per l’emozione devastante che sento: sono la feccia della terra, gettata sul pavimento e schiacciata, lurida e schifosa. E Sua.

Sua.

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