Dieci giorni senza pane, pasta, riso o altri cereali; senza dolci, birra, snack. Senza spuntini, senza merende. Solo tanta acqua e verdura, e un po’ di carne per non perdere muscolo.
Non ho mai mangiato così poco per un periodo così lungo.
Ma dieci giorni non sono bastati. Ce l’ho quasi fatta, ma in quel quasi c’è tutto.
C’è il mio essere sconsiderata quando si tratta di essere precisa.
C’è la mia eterna speranza di cavarmela, che per il mio bel faccino me la sarà fatta passare liscia; che le persone saranno comprensive quando sarò capricciosa, e che il mondo si accomoderà attorno a me.
C’è la mia indulgenza verso me stessa; il cedere, il trovare scuse o giustificazioni; il “per stavolta”.
Ho avuto paura; davanti alla prospettiva di un mese di punizione, sono rimasta atterrita. E in dieci giorni ho perso quasi quattro chili. Quasi.
Avrei potuto farcela, se non avessi ripreso peso in vacanza; perché in vacanza mi è scattata l’autoindulgenza, il pensare che ce l’avrei comunque fatta, l’arroganza, la presunzione, il non pensarci e l’irresponsabilità nei confronti di me stessa. E mi sono rimasti solo dieci giorni. E non sono bastati.
Giuro che non era mia intenzione metterlo alla prova. Stavolta sapevo che il rischio era alto. Avevo chiesto una seconda possibilità ed ho fallito. Di poco, ma ho fallito.
Ora ho un mese davanti a me. La consapevolezza mi sale ad ondate.
Rido e scherzo coi colleghi e mi faccio seria di colpo. Mi osservo il corpo allo specchio; corrugo la fronte e alzo i manubri. Pesto sui pedali della bici e bevo acqua, per riempire il vuoto allo stomaco. Calibro il cibo, anche ora.
Non ho finito.
Lui non ha finito con me.
E glie ne sono grata.