La sera di ferragosto mi trovo ad una grande tavolata che riunisce un gruppo indubbiamente eterogeneo. Io, mio marito, il mio Padrone, sua moglie e una serie di coppie scambiste. Scampoli di conversazione che vira al comico prima di concentrarsi su un confronto interessante, mentre pasteggiamo a maialino arrosto.
– Quindi qual è il vostro nick di coppia?
– Ah, no, veramente noi non siamo “della parrocchia”
– Ahh capisco, allora voi siete quelli normali!
Risate scroscianti, spontanee.
– Bè, no, normali non direi! Noi facciamo bdsm.
– Ah… (sguardo perplesso, quasi diffidente)
Io non sono mai stata interessata allo scambismo; loro, al bdsm. Parliamo.
Loro sono quelli che fanno le cose strane agli occhi dei monogami; noi siamo quelli strani ai loro; ma anche loro sono strani ai nostri. “Ma cos’è che fate? Ma sul serio?” Ci sono punti di contatto, aderenze; sovrapposizioni. Poi, diventa chiaro che ogni coppia, ogni singola persona ha un’immagine differente, un’idea diversa. “Sì, io faccio questo, ma non farei mai quello” – e chi fa “quello” diventa quello strano.
Ma quante sfumature ha l’essere “strano”? Sembra moltissime, e mi scuso per il titolo del post così scontato, ma mi è sorto spontaneo. Forse, c’è anche il fatto che non a tutti piace definirsi o venire definiti come “normale”; una parola troppo sdrucciolevole, fastidiosa. E l’essere strano diventa sinonimo di speciale: diventa motivo d’orgoglio e anche di provocazione verso chi non ha la nostra stessa “stranezza”.
Parliamo e ci confrontiamo, presentiamo visioni del mondo, delle relazioni, dei giochi discordanti, opposte, contraddittorie a volte persino a noi stessi. Comunque interessanti; vige il massimo rispetto (anche se poi a gruppetti ci guardiamo di sottecchi, ridacchiamo e bisbigliamo: ma che strani!). Tutti condividiamo una piacevolissima convivialità: una tavolata di gente che ride, scherza, si diverte.
E poi, giorni dopo, incontro in un negozio un mio amico che ha un disturbo dello spettro dell’autismo. Parla lentamente, non mi guarda negli occhi, si muove in modo artefatto ed è innocente come un bimbo.
Salutandolo, mi rendo conto che lui, sì, è strano. Io, alla fin dei conti, non so.